RAPIMENTO IMPERFETTO
Julien ha messo sempre il lavoro al primo posto e ciò lo ha portato, inevitabilmente, alla rottura del suo matrimonio. Mentre è in sosta in Francia, dopo una delle solite e abituali trasferte, l’uomo viene a sapere dall’ex moglie che il loro bambino di sette anni è scomparso durante una gita scolastica. L’ipotesi più valida della polizia è il rapimento; così, Julien decide di mettersi sulle sue tracce e di scovare la persona che vuole fargli del male.
La cinematografia francese è, ormai, sempre più presente sui grandi schermi italiani – spesso anche a discapito di pellicole indie inglesi o statunitensi – e, alcune volte, viene da chiedersi il perché, vista la poca qualità dei prodotti che vengono distribuiti. Questo è il caso di “Mio Figlio (My Son)” (2017), co-produzione franco-belga uscita in pochissimi paesi nel mondo e rilasciata in Italia – piuttosto in sordina e senza particolare attesa alcuna – da NO.MAD Entertainment.
Diretto e scritto – in collaborazione con Laure Irrmann – da Christian Carion – candidato a 1 Oscar e qui al suo quinto lungometraggio – il film è un trascurabile thriller dalle fattezze televisive, che – a dispetto delle sue intenzioni – offre, davvero, pochi momenti di tensione e nulla più.
La regia è alquanto blanda e, nonostante Carion provi a movimentare la narrazione – inserendo dei footage di famiglia, che non sono altro che un espediente utilizzato per dare indizi al protagonista e allo spettatore, al tempo stesso – la suspense rimane tanto bassa quanto l’interesse nello scoprire il vero rapitore.
Il plot, inoltre sembra appena abbozzato e poco approfondito e alcune scelte di scrittura appaiono forzate e, addirittura, ridicole; come se il regista volesse aggiungere degli elementi in una storia che non ha saputo ben costruire e strutturare.
Persino dal punto di vista delle performance, non ci sono risultati entusiasmanti: Guillaume Canet – che aveva già lavorato con Carion in “Joyeux Noël – Una Verità Dimenticata dalla Storia” (2005) e “Farewell” (2009) – è, scarsamente, convincente e dà l’impressione di essere distratto e fuori parte; Mélanie Laurent è appena accettabile come co-interprete ed entrambi sono, ulteriormente, penalizzati da un doppiaggio tremendamente scadente.
Al di là di tutte le pecche, la cosa che salta più all’occhio, sin dall’inizio – per ambientazioni, trama e colonna sonora – è quanto gli autori abbiano, incredibilmente, rubato da “Prisoners” (2013), di Denis Villeneuve – pellicola eccellente, di cui questa si limita ad esserne, perlopiù, una brutta copia con un finale differente, aleatorio e piuttosto banale.
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